domenica 29 maggio 2011
Cara, ho perso il bambino
Riprendo oggi questo post di Layos, che commentava la tragica morte della bambina dimenticata in un parcheggio dal padre. Avrei voluto commentarlo già allora, ma poi me ne è passata la voglia: ho distolto lo sguardo, proprio come dichiara di fare Guido davanti al telegiornale.
Poi la cosa è successa ancora, a distanza di pochi giorni: e anche qui la prima reazione è quella di distogliere lo sguardo, per l'orrore che si prova nei confronti di quei poveri bambini e per il dramma dei padri, a cui credo quasi tutti si sentano istintivamente vicini.
Io quella sensazione che ha provato Guido, quella volontà di rimozione, la conosco bene, me la porto addosso da quasi dodici anni: anche io mi sono dimenticato mio figlio in macchina.
Era il 31 dicembre 1999, Nichita aveva nove mesi. Quel giorno bisognava preparare la festa per il nuovo millennio, che magari non era il nuovo millennio ma lo consideravamo tale comunque. Io e il mio amico Gatto la mattina andammo alla Metro, a fare la spesa del pesce (saremmo stati una dozzina abbondante di persone, a casa dei miei, che era libera e -soprattutto- capiente); poi portammo a casa dei miei il pesce e ci sedemmo a tavole, dove mia madre ci servì le boghe fritte.
Le boghe sono un pesce squisito ma spinosissimo: e una spina mi si conficcò dentro una tonsilla. Cercai di togliermela da solo, ma non riuscendoci andai al San Giuseppe, dove nella sala d'attesa del Pronto soccorso c'era una bolgia infernale, a causa di un'epidemia di influenza che girava in quei giorni.
Fui fortunato, perché l'otorino era già lì, e dopo una ventina di minuti ero già fuori, A quel punto avevo il tempo per andar a cambiare l'alimentatore della nuova telecamera, che si era rotto in due giorni: dovevo andare alla Moroelettrica, che ancora esisteva, e non so neppure io perché decisi di portarmi dietro Nichita: credo che non ce ne fosse alcun bisogno, ma volevo stare con lui.
Arrivai in via Ludovico il Moro, parcheggiai la macchina e andai a cambiare quell'alimentatore del cazzo. Fu una cosa lunga: ci misi forse non un'ora ma quasi.
Uscii dal negozio, bello contento con il mio alimentatore, entrai in macchina e solo in quel momento vidi il bambino, che dormiva beato.
Mi passarono davanti agli occhi tutte le possibilità che ben potete immaginare: avrei potuto trovare una pattuglia di vigili o di polizia, che mi avrebbe probabilmente denunciato per abbandono di minore; avrei potuto trovare la macchina (che spesso lasciavo aperta, e quella volta lo era) vuota; avrei potuto trovare il bambino cianotico per il freddo; o peggio.
Dell'accaduto non ne ho mai parlato con nessuno, neppure con sua madre: quel fatto me lo sono tenuto dentro per tanti anni ben consapevole, allo stesso tempo, della gravità del fatto e della mia assoluta assenza di colpa.
Non che dal punto di vista penale la colpa (nella forma della "negligenza") non ci sia, sia chiaro. Ma so, per averlo provato sulla mia pelle, che neppure per un secondo ero stato sfiorato dal dubbio di dove fosse mio figlio; che neppure nel più remoto inconscio desideravo meno della più grande delle felicità per lui e che quel giorno non avevo alcun impegno che mi pressasse e distogliesse la mia mente.
L'unica spiegazione che mi sono dato, a posteriori, è che nella nostra vita entriamo spesso in modalità pilota automatico: compiamo i gesti della nostra vita quotidiana semza pensarci, proprio come non abbiamo bisogno di pensare a quale sia il pedale del freno quando arriviamo nei pressi di un semaforo rosso.
Non è questione di logorio della vita moderna, non è questione di vita multitasking né di frenesia della società d'oggi: è semplicemente la nostra natura che ci costringe a fare così, forse per risparmiare energie mentali da dedicare ad altre occupazioni più importanti come la caccia al bisonte o la risposta all'ennesima mail del capo deficiente.
Ogni sera, subito prima di addormentarmi (e spesso lo faccio in letti che non sono sotto lo stesso tetto sotto il quale dorme Nichita), quand'anche fossi completamente ubriaco o fumato o avessi la febbre a 42°, mi faccio il riassunto della giornata, mi concentro su dove sia mio figlio in quel momento, sulla necessità che il giorno dopo lo debba accompagnare o meno a scuola, e via discorrendo. Fino a quando non ho preso quest'abitudine , questo rito che celebro pochi attimi prima di dormire, mi succedeva abbastanza spesso di svegliarmi nella notte con l'ansia di non sapere dove egli fosse, e ci mettevo un bel po' a rendermi conto che era in camera sua, o magari in vacanza con mia sorella; e nel frattempo vivevo un'angoscia indescrivibile.
thanks to m.fisk
Poi la cosa è successa ancora, a distanza di pochi giorni: e anche qui la prima reazione è quella di distogliere lo sguardo, per l'orrore che si prova nei confronti di quei poveri bambini e per il dramma dei padri, a cui credo quasi tutti si sentano istintivamente vicini.
Io quella sensazione che ha provato Guido, quella volontà di rimozione, la conosco bene, me la porto addosso da quasi dodici anni: anche io mi sono dimenticato mio figlio in macchina.
Era il 31 dicembre 1999, Nichita aveva nove mesi. Quel giorno bisognava preparare la festa per il nuovo millennio, che magari non era il nuovo millennio ma lo consideravamo tale comunque. Io e il mio amico Gatto la mattina andammo alla Metro, a fare la spesa del pesce (saremmo stati una dozzina abbondante di persone, a casa dei miei, che era libera e -soprattutto- capiente); poi portammo a casa dei miei il pesce e ci sedemmo a tavole, dove mia madre ci servì le boghe fritte.
Le boghe sono un pesce squisito ma spinosissimo: e una spina mi si conficcò dentro una tonsilla. Cercai di togliermela da solo, ma non riuscendoci andai al San Giuseppe, dove nella sala d'attesa del Pronto soccorso c'era una bolgia infernale, a causa di un'epidemia di influenza che girava in quei giorni.
Fui fortunato, perché l'otorino era già lì, e dopo una ventina di minuti ero già fuori, A quel punto avevo il tempo per andar a cambiare l'alimentatore della nuova telecamera, che si era rotto in due giorni: dovevo andare alla Moroelettrica, che ancora esisteva, e non so neppure io perché decisi di portarmi dietro Nichita: credo che non ce ne fosse alcun bisogno, ma volevo stare con lui.
Arrivai in via Ludovico il Moro, parcheggiai la macchina e andai a cambiare quell'alimentatore del cazzo. Fu una cosa lunga: ci misi forse non un'ora ma quasi.
Uscii dal negozio, bello contento con il mio alimentatore, entrai in macchina e solo in quel momento vidi il bambino, che dormiva beato.
Mi passarono davanti agli occhi tutte le possibilità che ben potete immaginare: avrei potuto trovare una pattuglia di vigili o di polizia, che mi avrebbe probabilmente denunciato per abbandono di minore; avrei potuto trovare la macchina (che spesso lasciavo aperta, e quella volta lo era) vuota; avrei potuto trovare il bambino cianotico per il freddo; o peggio.
Dell'accaduto non ne ho mai parlato con nessuno, neppure con sua madre: quel fatto me lo sono tenuto dentro per tanti anni ben consapevole, allo stesso tempo, della gravità del fatto e della mia assoluta assenza di colpa.
Non che dal punto di vista penale la colpa (nella forma della "negligenza") non ci sia, sia chiaro. Ma so, per averlo provato sulla mia pelle, che neppure per un secondo ero stato sfiorato dal dubbio di dove fosse mio figlio; che neppure nel più remoto inconscio desideravo meno della più grande delle felicità per lui e che quel giorno non avevo alcun impegno che mi pressasse e distogliesse la mia mente.
L'unica spiegazione che mi sono dato, a posteriori, è che nella nostra vita entriamo spesso in modalità pilota automatico: compiamo i gesti della nostra vita quotidiana semza pensarci, proprio come non abbiamo bisogno di pensare a quale sia il pedale del freno quando arriviamo nei pressi di un semaforo rosso.
Non è questione di logorio della vita moderna, non è questione di vita multitasking né di frenesia della società d'oggi: è semplicemente la nostra natura che ci costringe a fare così, forse per risparmiare energie mentali da dedicare ad altre occupazioni più importanti come la caccia al bisonte o la risposta all'ennesima mail del capo deficiente.
Ogni sera, subito prima di addormentarmi (e spesso lo faccio in letti che non sono sotto lo stesso tetto sotto il quale dorme Nichita), quand'anche fossi completamente ubriaco o fumato o avessi la febbre a 42°, mi faccio il riassunto della giornata, mi concentro su dove sia mio figlio in quel momento, sulla necessità che il giorno dopo lo debba accompagnare o meno a scuola, e via discorrendo. Fino a quando non ho preso quest'abitudine , questo rito che celebro pochi attimi prima di dormire, mi succedeva abbastanza spesso di svegliarmi nella notte con l'ansia di non sapere dove egli fosse, e ci mettevo un bel po' a rendermi conto che era in camera sua, o magari in vacanza con mia sorella; e nel frattempo vivevo un'angoscia indescrivibile.
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