domenica 17 febbraio 2013

E visse. Fiaba senza lieto fine. (Temo)

Ci sono storie che ti colpiscono.
Ci sono realtà che ti sorprendono.
Ci sono uomini grandi e anche un po' piccoli.
Ci sono vite segnate dal dolore.


La prima volta che chiacchierai con Oscar Pistorius – il Tg1 l’aveva sostenuto nella sua battaglia per partecipare alle Olimpiadi malgrado l’handicap fisico – mi ringraziò come uno studente beneducato e volle dire «I miei eroi sono Gandhi, Mandela, il mio presidente sudafricano, e James Dean.

Gandhi e Mandela insegnano forza, tenacia e saggezza. Dean lo ammiro perché è “cool”, affascinante». L’ho rivisto l’estate scorsa, alle Olimpiadi di Londra, sogno finalmente realizzato. Per evitare i paparazzi si allenava in periferia, a Twickenham, alberi ombrosi, silenzio, scuole. Sulle protesi al carbonio, marca Flex Foot Cheetahs, Pistorius scattava sudato con il compagno di squadra Ofentse Mogawane. Sulle orecchie, a tappare il mondo, la cuffia del rapper Dr Dre.

Durante una sosta, mentre qualche scolaro gli chiedeva timido l’autografo, lo vidi intento a scrivere sul taccuino, aveva la mania di appuntare ogni dettaglio del giorno, dieta, allenamenti, condizioni meteo, stato di forma. Lo salutai da lontano, si alzò subito cortese, abbracciandomi madido di sudore. Volle mostrarmi il tatuaggio «I do not run like a man running aimlessy», io corro ma non come chi è senza meta, tratto dalla Prima lettera di San Paolo ai Corinzi, 9,26 «Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. Io dunque corro, ma non come chi è senza meta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato».

Ora Oscar Pistorius è stato squalificato. La sparatoria che ha ucciso la sua bellissima ragazza, Reeva Steenkamp, cancella nel sangue della quotidiana violenza del Sud Africa la sua immagine di atleta, promotore dei diritti umani, manager felice del proprio business, modello per tanti sofferenti. «Dopo aver predicato agli altri» attende il processo in galera, la polizia non crede alla sua versione: «Ho scambiato Reeva per un ladro». Troppe pallottole, voci di litigi in casa e quel tweet dolce e tragico della giovane massacrata: «Che asso nella manica avete per il vostro ragazzo a San Valentino?».

Mettiamo sulle spalle dei campioni le nostre ambizioni, frustrazioni, speranze, delusioni. Poi li vediamo saltare sotto l’usura della vita, Maradona con la cocaina e i guai familiari e fiscali, l’asso del ciclismo Armstrong – anche lui a lungo idolatrato per la battaglia contro il cancro - spogliato della gloria dei Tour per la pervicace e arrogante tossicodipendenza al doping, il campione del football americano O.J. Simpson accusato di avere ucciso la moglie e assolto dopo un controverso processo. I calciatori delle scommesse, Marco Pantani morto disperato. La depressione dopo il boato della folla, il libero della Roma e del Milan Agostino Di Bartolomei che si spara con la Smith&Wesson lasciando un messaggio che nessuno ascolterà: «Mi sento chiuso in un buco».
Eleviamo gli sportivi ad eroi del nostro tempo, e se devono superare, come Pistorius, un limite che li fa apparire più deboli di noi, ancor più concediamo ammirazione. Ci vendicano dalla normalità, se ce l’hanno fatta loro, anche noi oltrepasseremo le difficoltà, saremo primi al traguardo sognato.

Dimentichiamo, in questa delega frettolosa, l’angoscia, la pena, la fatica, fisica e morale, che logora uomini e donne dell’Olimpo. Pistorius mormorava: «Leggo le critiche sui vantaggi che mi darebbero le protesi in gara, e mi chiedo: come mai allora, visto che adesso le mie “scarpe” sono legali, non le usano anche gli altri atleti? Sanno i critici cosa voglia dire il bruciore terribile nei moncherini dopo un allungo? M’è capitato di immergerli nel ghiaccio per il dolore», ma al Villaggio Olimpico si parlava del contratto con la Ferrari, del motoscafo, delle moto da cross con cui s’era rotto le costole, delle tigri bianche che aveva comprato, dei soldi degli sponsor.

Ora la corsa che sperava avesse una meta oltre il disordine l’ha portato alla sparatoria nel residence di lusso, al cadavere massacrato di Reeva, nelle foto sulle riviste patinate perfetta compagna di un uomo perfetto. Ma la perfezione che imponiamo ai nostri idoli maschera la nostra imperfezione. In un momento che ora il tribunale del Sud Africa dovrà accertare, e che forse resterà per sempre oscuro, l’atleta olimpico Oscar Pistorius, campione medagliato delle Paralimpiadi che aveva sfidato i «normali» sulle piste di atletica, ha perduto la meta, ha corso come i dissennati da cui San Paolo ci mette in guardia. Il monito era tatuato sulla pelle, non nell’anima. Reeva paga il prezzo della ferocia, donna tenera che nel profilo twitter si definiva «Bambina di Dio». Noi sugli spalti, pronti ad applaudire i gladiatori, ad alzare il pollice felice alle loro imprese, meditiamo oggi prima di calarlo come giudici spietati: non è forse il pollice in su e in giù marchio di elogio e bocciatura su Facebook, la nostra piazza mondiale? Come siamo disumani nel chiedere imprese ad eroi che sono solo umani, non ghigniamo alla loro caduta. Piangiamo Reeva e chiediamo per lei giustizia, aspettando la verità su Pistorius, caduto da stella del firmamento a imputato di omicidio. Meditiamo perché, a San Valentino, la violenza del mito di James Dean ha sopraffatto la saggezza di Nelson Mandela.

Pistorius, il traguardo perduto di un eroe fragile.
Gianni Riotta, La Stampa 15/02/2013

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