lunedì 20 dicembre 2010

A destra del letto di mio padre c’è Walter.

A destra del letto di mio padre c’è Walter.
Walter era infermiere in un grande ospedale fiorentino. Era un “ferrista”, cioè uno di quelli che assistono il chirurgo durante le operazioni. Dieci anni fa è andato in pensione, e s’è trasferito con la moglie e il figlio nel paesino natale di lei, sulle pendici dell’Amiata. Walter il marzo scorso ha avuto una crisi epilettica, seguita poi da lancinanti mal di testa. Dopo mesi di esami e analisi, un mese e mezzo fa, gli hanno diagnosticato un tumore al cervello esteso e inoperabile. Adesso Walter giace disteso a letto. Ha perso completamente la parola, e quasi tutte le capacità motorie. Capisce tutto, e si esprime cogli sguardi. Gli somministrano un sacco di medicinali, antidolorifici e soprattutto calmanti che scongiurino le crisi epilettiche.

La moglie è una signora magra e calma, cogli occhi grandi e fermi, e nello sguardo le leggi dolore e stupore. Quando è dentro la camera, nutre e cura il marito con dolcezza e sorridendo. Poi esce nel corridoio e, qualche volta, piange silenziosamente. Il figlio è un ventunenne tracagnotto, dall’andatura simpatica e dallo sguardo sereno e gioviale. Ha seguito le orme del padre, ed è al secondo anno della scuola da infermieri. Quando è nella stanza, si prende imperturbabile e sorridente cura del suo babbo. L’ho visto cercargli per cinque minuti una vena nel piede per la flebo – le braccia ormai sono tumefatte dalle troppe punture -, senza fare una piega, sempre delicato, affettuoso e allegro. Poi, nel corridoio, con la stessa calma energia, così sorprendente in un ragazzo così giovane, consola la madre e cerca di condurla dolcemente ad accettare lo stato delle cose. Sono sicuro che W. si senta orgoglioso d’avere un figlio così. Io lo sarei, e molto. Al tempo stesso, se i figli sono in qualsiasi misura lo specchio dei genitori, Walter di certo dev’essere stato un gran bravo padre.

Guardo ammirato e affascinato la delicata coesione, la saldezza d’affetti e la dignità con cui questa famiglia sta affrontando l’atroce procedere della morte al lavoro, e mi ritrovo a pensare che queste persone, che sulla carta potremmo definire come semplici e umili, siano tra le più ricche che abbia mai incontrato. E poi, sua sponte, mi viene in mente un noto adagio evangelico, e d’improvviso esso m'appare cristallino e perfettamente sensato, senza bisogno di scomodare alcun dio: “beati i miti, perché essi erediteranno la terra”.


A sinistra del letto di mio padre c’è Sergio.
Sergio è un rumoroso signore viterbese sulla settantacinquina. Sposato con una grossetana s’è trapiantato colà, e ha avuto tre figli. E’ stato portato in questo piccolo ospedale perché quello grande e moderno di Grosseto non aveva letti. Lui e la moglie erano già stati qui trent’anni fa: aveva avuto un colpo di sonno, erano finiti coll’auto in una scarpata e qui gli avevano salvato la vita. Sergio è arrivato qui con la moglie, che ha vissuto per due giorni nell’ospedale dormendo su una seggiola, poi è sparita. Una notte mi sono affacciato in camera per vedere se mio padre dormiva, e ho visto che lei, sfinita, s’era allungata sul letto del marito, e dormivano abbracciati.

Non si capisce bene cos’abbia Sergio: la moglie – una signora stanca dall’aria un po’ assente.-, mentre l’aiutavo a parcheggiare il suo vecchio pandino, mi ha detto che lui quest’estate ha avuto il fuoco di Sant’Antonio, è stato molto male, si è depresso e non si è più ripreso.
Sergio ha un vocione laziale che fa tremare i vetri, e fa dei gran teatri, e chiede continuamente e rumorosamente attenzione. Dice che muore, che non respira, ma dall’energia con cui lo dice è difficile prenderlo sul serio: e infatti anche gli infermieri gli dicono spazientiti suvvia, la smetta, son ben altri quelli che muoiono. Sergio spesso fa molto ridere, sembra uscito da un film di Verdone. Oscilla tra consigli sulle trattorie in zona, a enunciazioni del fatto che oggi lascerà l’ospedale, a colorite reprimende agli infermieri che lo trascurano, a richieste di parlamentare “col responsabile qui della baracca”. Sergio a volte è irritante: egoisticamente penso a mio padre che avrebbe bisogno di riposo, e invece lui fa continuamente dei gran casini, pretende cose e litiga cogli infermieri.
Ieri l’altro mattina Sergio mi guarda e fa: “Sa, stanotte ero indeciso se morire o no. Poi ho pensato ai miei fiji, e ho deciso che volevo vivere”. Poi s’è messo a piangere.

Ieri mattina hanno lasciato i vassoi colle colazioni, la moglie anche ieri non c’era, gli infermieri (ovviamente pochi per tutti quei malati) tardavano, così Sergio m’ha ingiunto col vocione d’aiutarlo. Allora gli ho reclinato il letto, incastrato il tavolino tra le sponde, e servito il vassoio col caffelatte e le fette biscottate. Sergio ha spazzolato tutto d’appetito, sia la sua colazione che quella della moglie assente. Poi ha enunciato che in giornata se ne sarebbe andato, ha cominciato ad agitarsi, a chiedere che voleva parlare colla moglie, che qui che là, a chiamare a gran voce gli infermieri, a chiedermi se avevo il cellulare per telefonare a casa eccetera. Per farlo star buono, gliel’ho dato. Ha chiamato, e ha cominciato a urlare nel telefono di venirlo a prendere. Ma siccome è duro d’orecchi, non capiva le risposte e allora m’ha passato la moglie, che mi ha detto agitata che lei oggi non aveva la macchina e non poteva venirlo a prendere. Ho riferito a Sergio la cosa, e col suo modo di fare brusco e col vocione pretendeva di sapere da me cosa significava che non aveva la macchina. Un po’ spazientito, soprattutto a causa degli effetti che tutta quest’agitazione poteva avere su mio babbo, ho cercato un po’ di tagliare corto per farlo stare buono. Alle nove ci hanno buttato fuori dal reparto, e come previsto sono ripartito per Milano.

Ieri sera, arrivato a casa, chiamo per avere notizie del babbo. La moglie di mio padre, sconvolta, mi racconta: verso le cinque del pomeriggio, Sergio ha fatto per l’ennesima volta uno dei suoi numeri. Solo che questa volta sembrava stare male sul serio. E, nel giro di cinque minuti, davanti a lei e a mia sorella sedicenne che per lo shock ha cominciato a buttare sangue dal naso, e nell’incredulità generale, a partire dagli stessi infermieri, Sergio è morto. Quando ho riagganciato il telefono mi sono accorto che stavo tremando.

scritta da lucah: "Le due storie quissù le ho scritte da un lato a scopo terapeutico, per sfogarmi e sublimare l'angoscia per ciò che ho visto in questi giorni, dall'altro perché mi parevano meritevoli d'essere raccontate, e, per ciò che mi concerne, in futuro ricordate."

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